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Leggi l’articolo su LuccainDiretta  Tutti i dettagli della sentenza – 30 gennaio 2015

Altri dettagli in Linkedin Pulse Condanne a 4 dirigenti, Friz diventa ad di Waste Italia – 31 marzo 2015

L'attesa per la sentenza. in primo piano, il sindaco di Pietrasanta Domenico Lombardi

L’attesa per la sentenza. In primo piano, il sindaco di Pietrasanta Domenico Lombardi

Condannati per lo sversamento nel torrente Baccatoio di acque potenzialmente nocive (articolo 674 cpp) ma assolti perché il fatto non sussiste per quanto attiene all’articolo 137 del Dlgs 152/2006 (Norme in materia ambientale), comma 1, che riguarda chiunque apra o effettui nuovi scarichi di acque reflue industriali, senza autorizzazione, oppure continui (…) dopo che l’autorizzazione sia stata sospesa o revocata.

Assolti perché il fatto non sussiste anche dall’accusa di danneggiamento, in riferimento all’articolo 635 cpp. Questa la sentenza riguardante quattro manager e dirigenti tecnici di Tev-Veolia, nel processo per l’inceneritore di Falascaia a Pietrasanta, arrivato a conclusione il 29 gennaio nell’aula prima penale del tribunale di Lucca. I quattro imputati sono Pierre Marie Thierry Hubert,  presidente del Cda e legale rappresentante di Tev  dall’ottobre 2007; Enrico Fritz, ad di Tev dal settembre 2008; Marco Albertosi, responsabile tecnico e di gestione dell’impianto dal febbraio 2009 e Stefano Danieli, procuratore speciale di Tev nominato il 3 settembre 2009.

La giudice Valeria Marino ha assolto con le medesime motivazioni anche Stefano Ghetti, capo impianto dal novembre 2005 al giugno 2008 e Francesco Sbrana, amministratore delegato e legale rappresentante di Tev spa dal settembre 2005 al settembre 2008.

I due sono stati assolti per non aver commesso il fatto anche dall’accusa di sversamento in relazione all’articolo 674 cpp (riguardante il getto e lo sversamento di sostanze potenzialmente nocive) e dall’accusa di aver deteriorato il rio Baccatoio (provocandone la contaminazione da diossina fino alla foce recitava il rinvio a giudizio al capo C) perché il fatto non sussiste.

Fritz, Albertosi e Danieli, inoltre, sono stati assolti perché il fatto non sussiste in relazione al capo B, quello riguardante lo smaltimento senza autorizzazione di rifiuti liquidi pericolosi nelle condotte di Gaia spa, all’insaputa della società.

Si direbbe una sostanziale vittoria per i sei imputati e per i loro legali, se non fosse che il rinvio a giudizio, in materia di reati ambientali, è già di per sé un atto significativo. Caduta l’accusa di danneggiamento, secondo il difensore di Danieli Roberto Losengo, resta il contentino per il quale noi avevamo anche proposto l’oblazione dello sversamento e del superamento dei limiti di rame.

Ma intanto l’inceneritore di Falascaia non è stato più riaperto. Questo è il risultato più eclatante dell’indagine della magistratura condotta dal pm Lucia Rugani, che operò il sequestro l’8 luglio del 2010 dal quale è derivato poi il mancato rinnovo dell’autorizzazione provinciale. L’impianto non è più in organico nel piano regionale dei rifiuti, né in quello di Ato Costa. Resta il problema della bonifica, tema in discussione proprio ieri sera al Cav dei Comuni versiliesi.

Ed è oramai entrata nell’opinione comune la certezza che senza inceneritori è meglio, al di là del gioco delle soglie minime di sostanze inquinanti sul quale, anche nell’ultima udienza in tribunale, gli avvocati delle difese hanno puntato molto. La colpa, se c’è, sarebbe della vecchia discarica a monte dell’impianto e della bonifica fatta male del vecchio forno degli anni Settanta. La colpa sarebbe anche dei cattivi campionamenti, contestati nel merito di come e quando sono stati fatti. E poi quell’area dei veleni non è un parco giochi, ha detto forse a proposito l’avvocato Losengo, dato che l’idea del Comune sarebbe di portarci le scolaresche a fare didattica ambientale.

Un’amministrazione che sulla destinazione dell’area nel nuovo piano regolatore si è scontrata con la Regione Toscana e che ora si trova con altre emergenze emerse nel frattempo nel territorio: dal tallio nell’acqua del rubinetto, che riguarda potenzialmente migliaia di persone nell’arco di decenni, alle ex miniere Edem a monte dell’ormai famoso rio Baccatoio, oltre ai soliti divieti di balneazione nel mezzo della stagione turistica. Intanto però vale il principio secondo cui contaminazione non significa danneggiamento. Un’altra delle finezze della difesa di Danieli.

Quando è arrivata la sentenza, intorno alle 16, il sindaco Domenico Lombardi e l’assessore all’ambiente Italo Viti erano in aula fin dalla mattina, insieme a una trentina di attivisti fra i quali Daniela Bertolucci, Cinzia Bertuccelli e Stefania Brandinelli che tramite l’Associazione per la tutela ambientale della Versilia hanno fatto decine di ricorsi nel corso degli anni contro l’impianto. C’erano Andrea Cecchini, Enrico Santambrogio, Daniele Ferrante, Amelia Tacca della Rete ambientale della Versilia, Mario Giannelli e Alessandro Giannetti del Blocco anticapitalista, David Lucii e Nicola Briganti del M5S di Pietrasanta, Antonella Bertolucci di Medicina Democratica. Insieme a loro le signore dai capelli bianchi che vivono nella bella zona agricola del Pollino, dov’è facile vedere gli aironi candidi sulle rive dei molti corsi d’acqua.

Sono dei cittadini le foto che immortalano i vapori prodotti dall’acqua calda proveniente dall’impianto, nel momento in cui colava nel Baccatoio. L’inceneritore, o termovalorizzatore come viene chiamato grazie alla sua funzione di produrre energia dalla combustione, per anni ha emesso fumi al di fuori dei parametri, tanto che qualcuno inventò un software per tenerli sempre in regola artificialmente. Anche su questo i cittadini hanno dato battaglia e la vicenda è sfociata in un altro processo, terminato nel 2012 con due patteggiamenti da parte di Francesco Sbrana e del tecnico Umberto Ricci, che se la sono cavata con circa 4mila euro ciascuno di multa.

Dal sequestro dell’impianto in poi, passando per il mancato rinnovo del contratto con i Comuni versiliesi per la gestione dei rifiuti nel 2012, le sventure di Veolia si sono moltiplicate fino al fallimento. Il lavoro per gli avvocati non manca. Enrico Fritz è tuttora sotto indagine in qualità di amministratore delegato di Tec spa (Termo Energia Calabria), insieme ad altri dirigenti della società  e tecnici di impianti vari e discariche, fra cui il termovalorizzatore di Gioia Tauro. Tabula rasa l’hanno chiamata i Carabinieri del comando per la tutela dell’ambiente di Roma. Ventinove persone sono accusate di far parte di un’associazione a delinquere per lo smaltimento illecito, bruciati e messi in discarica, di rifiuti tal quali, trattati solo sulla carta.

Fra gli elementi di rilievo di quest’indagine, corredata da molte intercettazioni telefoniche, emerge il colossale e diabolico affare che ruota intorno al meccanismo del Cip6, ovvero il meccanismo dei certificati verdi e della vendita a prezzo maggiorato dell’energia prodotta con la combustione dei rifiuti al Gestore elettrico. Bruciare rifiuti negli inceneritori è stato equiparato dalla normativa italiana ad utilizzare fonti rinnovabili e di questo favore ha beneficiato per anni tutto il sistema degli impianti, facendolo pagare ai cittadini nella bolletta.

di Daniela Francesconi

Per anni l’acquedotto pubblico avrebbe smaltito i liquidi contaminati dell’inceneritore

Leggi l’articolo su LuccainDiretta Dal processo, elementi choc sui rifiuti pericolosi – 10 gennaio 2015

I rifiuti liquidi dell’inceneritore di Falascaia a Pietrasanta hanno fatto per anni il giro della Versilia, trasportati dalle ditte specializzate verso gli impianti di depurazione dell’acquedotto pubblico. Con un codice identificativo non pericoloso, si sono così mescolate agli scarichi urbani anche le acque contaminate provenienti dalla vasca di prima pioggia e dalle parti interne dell’impianto. Questa, almeno, è una delle accuse contro sei imputati, responsabili a vario titolo dell’inceneritore pietrasantino per le aziende Tev e Veolia.

Si tratta di manager e capi tecnici al lavoro negli anni 2005-2010. Si chiamano Thierry Pierre Marie Hubert, Francesco Sbrana, Enrico Friz, Stefano Ghetti, Marco Albertosi e Stefano Danieli e sono difesi da un pool di avvocati provenienti da Milano, Firenze, Massa.

Alla seconda udienza del processo, celebrata ieri nel tribunale di Lucca, gli amministratori versiliesi non erano presenti, neppure il sindaco di Pietrasanta Domenico Lombardi. Si è fatta vedere invece l’assessora all’Ambiente e vicepresidente della Provincia Maura Cavallaro che a Pietrasanta ci vive. In compenso, dopo le varie eccezioni è iniziato il dibattimento e il 9 gennaio 2014 è diventato un’altra data storica della lunga vicenda del termovalorizzatore sorto nella campagna fra Camaiore e Pietrasanta.

Mentre Gaia spa – dal 2004 il gestore unico del servizio idrico della Toscana nord – non ha voluto costituirsi parte civile, il Comune di Camaiore ha tentato di inserirsi all’ultimo tuffo ma la sua richiesta è stata respinta dalla giudice Valeria Marino, in apertura di udienza.

Amareggiato, l’assessore all’Ambiente camaiorese Davide Dalle Mura ha detto: Noi almeno ci abbiamo provato. Si accontenta invece degli aspetti penali il gestore idrico, che pure viene espressamente menzionato nel capo B del rinvio a giudizio: gli imputati inducevano in errore la società Gaia spa e le causavano un danno patrimoniale di rilevante gravità.

L’acquedotto non avrebbe potuto in alcun caso ricevere liquidi classificati Cer 19.01.06, ma soltanto i reflui fognari e le acque di seconda pioggia trattate. Invece, potrebbe aver digerito senza saperlo almeno 900 mila tonnellate di liquidi contaminati. Si sa che smaltire rifiuti pericolosi, anche allo stato liquido, costa di più e quindi il pubblico ministero Lucia Rugani ha ipotizzato che i vertici aziendali di Tev-Veolia abbiano deciso di risparmiare in questo modo svariate migliaia di euro.

Grossi camion, per molti anni, hanno aspirato l’acqua dall’inceneritore classificata con il codice Cer 20.03.06 (non pericoloso) e l’hanno portata a Querceta, Pietrasanta e Camaiore. Sono i mezzi guidati dai tre figli di Luciano Giannarelli, titolare della ditta di autospurgo del Crociale a Pietrasanta. Per i loro tubi sono passati anche migliaia di tonnellate di rifiuti pericolosi (200 mila nel 2009, ad esempio) che i tre hanno trasportato verso ditte specializzate come la Teseco di Pisa.

Ascoltati in aula hanno reso le loro dichiarazioni e c’è chi ha ammesso di non sapere quale fosse la vasca di prima pioggia e quale quella di seconda pioggia. L’attribuzione dei codici ai diversi liquidi, hanno raccontato, era compito degli uffici della compagine italo-francese ai vertici dell’impianto.

Aspiravano l’acqua dal cassone e dalle vasche interrate dove finiva anche il percolato della vecchia discarica sul retro dell’impianto e i liquidi potenzialmente più pericolosi perché derivanti dalla pulizia delle macchine, delle caldaie. Raccoglievano l’acqua della fossa biologica e del piazzale, senza dimenticare gli interventi d’urgenza sotto la pioggia battente.

La differenza fra acque di prima e di seconda pioggia l’ha spiegata invece Max Strata, l’ex della polizia giudiziaria della Procura di Lucca, protagonista delle indagini del 2010. Il teste più importante della giornata, oltre a parlare per ore dei riscontri fra le fatture, i formulari di accompagnamento e i codici Cer, ha descritto le caratteristiche dell’impianto anche a chi, in aula, non aveva mai guardato un inceneritore in vita sua.

Strata ha spiegato che nella prima vasca finisce la pioggia che cade a terra fino a 5 millimetri di spessore e che segue poi un percorso di depurazione, tramite sostanze chimiche e filtri. La seconda vasca raccoglie tutta l’altra acqua, che viene anch’essa ripulita in vari passaggi.

Gli inquirenti, spulciando le fatture nel 2010, hanno scoperto che a Falascaia non si compravano più i prodotti per lavare l’acqua. L’ispezione nella vasca delle acque di seconda pioggia, ha raccontato Max Strata, mostrò un sedimento alto fino a 20 centimetri contaminato dalla diossina, sostanza non solubile e poco volatile.

Alcune fotografie agli atti nel fascicolo processuale, mostrano il vapore sprigionatesi nel momento in cui acqua calda – sono le cosiddette acque di processo – sarebbe stata scaricata abusivamente nel piccolo fiume a nord dell’impianto. Una pratica in uso soprattutto di notte, stando alle testimonianze.

La diossina è stata trovata anche 130 metri a monte dello scarico autorizzato dell’impianto, in corrispondenza di un tubo pirata e tre chilometri più a valle, alla foce dello sventurato Rio Baccatoio, già inquinato dai residui delle ex miniere Edem. Fortuna che l’intero impianto, sorto sulle ceneri – è il caso di dirlo – di un altro più vecchio, è circondato da una zona definita nel regolamento urbanistico pietrasantino a prevalente destinazione agricola e forestale, nonché come pianura di particolare valore ambientale.

Max Strata, in risposta alle domande dei difensori degli imputati, ha spiegato che questo dettaglio, abbassa i limiti di riferimento consentiti per gli agenti inquinanti. E che il piccolo fiume destinatario degli scarichi, poteva soffrire di ben più di 120 giorni all’anno di secca e quindi dovevano essere presi accorgimenti specifici.

Insomma, un quadro complesso che solo un racconto approfondito nell’aula del tribunale può far emergere in tutta la sua gravità, per un territorio come quello versiliese, che ogni estate ama fregiarsi della Bandiera Blu.

Arriveranno in aula anche i verbali degli interrogatori condotti durante l’indagine che portò al sequestro dell’inceneritore, il 7 luglio del 2010. I prossimi testi, convocati per l’udienza del 6 febbraio, dovranno confermare le dichiarazioni rese agli inquirenti, alcune di queste abbastanza scioccanti. A Falascaia, in certi periodi, si sarebbero accumulati sui pavimenti alcuni metri di residui contaminati, rimossi e insacchettati con le vanghe dagli operai.

Dovrà essere ascoltato nuovamente anche il consulente tecnico della Procura, Federico Serena dell’Arpat di Mestre, che per ultimo ieri ha velocemente illustrato in aula la sua relazione, mettendo il carico da dodici: l’impianto di depurazione di Falascaia – secondo i documenti studiati e le verifiche in loco – era sottodimensionato rispetto alle esigenze e non era conforme ai progetti autorizzati, fin dalla sua costruzione e collaudo nel 2002.

Le vasche comunicanti, gli scarichi incerti e la selva di by-pass azionabili manualmente, aggiunti per far scivolare le acque lungo percorsi che neppure l’esperto è riuscito a ricostruire appieno: questo ha descritto il consulente davanti al giudice Marino ieri pomeriggio e il seguito andrà in scena il 27 febbraio, con gli avvocati difensori che pensano già al confronto diretto con i propri esperti.

di Daniela Francesconi